Brioche al pistacchio.

“Un cappuccio chiaro, un caffè al ginseng in tazza grande, una brioche alla marmellata…”
Diede una rapida occhiata al piccolo contenitore trasparente dei cornetti. ” Niente. Anzi, io prendo quella al pistacchio.” Non l’aveva mai vista una brioche al pistacchio, le spirali della pasta venate di verde. Coloranti: sicuramente. E sicuramente le faceva gola.
Giusto il tempo di pagare e mettere piede nel negozio quasi di fronte e la cupola nera dei capelli raccolti della barista comparve dietro il vetro della porta che s’era appena chiusa. Il vassoio prese posto ingombrando il banco, fra la cassa e l’espositore dei braccialetti di vetro; gli occhi scuri della ragazza zampettarono dal caffè al ginseng alla brioche, finchè le sue dita, sedotte, presero con un gesto veloce il dolce venato di verde acceso.

Primo morso. Beh, la pasta era morbida.
Un morbido tono di voce.

“… e l’altro ha venti settimane, e ha gli occhi azzurri. Si rende conto? Azzurri! Che poi, io gli ho detto che sono fortunati, tutti e due li hanno scuri, io li ho scuri, no, aspetta, il padre effettivamente li ha azzurri ma di un colore più cupo, invece mio nipote li ha cangianti. Si rende conto, cangianti!…”

Secondo morso. Nel varco aperto ormai nel cuore della brioche si intravedeva il ripieno, inaspettato e promettente come un ragazzo dal buon profumo sul collo.

“Perchè poi è predominante, no?”
“No, mamma, è recessivo il colore chiaro degli occhi.” Davanti alla genetica anche la colazione poteva aspettare.
“Certo, intendevo quello.”
La cliente col nipote dai rari occhi cangianti stava facendo perdere tempo alla madre della ragazza, con la sua brioche alla marmellata che giaceva abbandonata a metà sul vassoio, accanto al cappuccio chiaro.

Terzo morso: il ripieno era divino.
Pistacchio. Occhi verdi.

“Ma 79 euro non è un po’ troppo?”
“Come scusi?”
La cliente dagli occhi spenti ripetè la domanda con tono tanto neutro da sembrare morto.
“Ma è da scontare. Viene 24, alla fine.”
“Sì, ho capito… Ma mi sembra errato.”
La ragazza prese uno sguardo smarrito. “Eh, le assicuro che è giusto.” Scosse la testa: che razza di domande, che coraggio.
Quanto coraggio ci vuole a dare un bacio?

Quarto morso. Oddio, quel bar aveva guadagnato punti bonus validi per tre generazioni.

Una donna con un cappotto rosso, i tacchi ed un sorriso sincero che la rendeva bella da morire prese sicura due vestitini, provandone uno solo.
E se per essere sicuri si dovesse provare tutto?

Quinto, sesto morso.
Quanto avrebbe voluto morderlo, in quell’attimo? Più di quella brioche?
Sicuramente.

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Le parole scomode

Con tutti i suoi mobili in legno lo studio offriva una sensazione di calda accoglienza. Le librerie sormontate da un’unica lunga mensola come una moderna trabeazione, i ripiani gonfi di libri, dvd, numeri sparsi di varie enciclopedie, persino qualche impolverata videocassetta. Ogni oggetto profumava di familiarità.
E poi il disordine, che dalla scrivania si riversava su tutta la stanza, sui giubbotti appesi senza attenzione e sulla cassapanca, colma sopra e dentro.

Poi l’occhio si poteva posare a destra, sull’angoliera, magari sulla sua anta inferiore. Senza alcuna motivazione lo sguardo vi si sarebbe impiantato con curiosità bruciante, spingendo le dita a girare la chiave.
Trovando all’interno solo un mucchio di sacchetti.
Dimensioni e colori diversi, alcuni di Natale, altri completamente anonimi; di cartone o plastica, con o senza manici, resistenti o già strappati ma tenuti nella speranza di poter essere ancora utili in qualche modo. Oppure lì per semplice pigrizia.
Ripiegati due o tre volte, ma solo sacchetti.

Il fatto è che non contenevano solo bolle d’aria e polvere; quei sacchetti custodivano le parole scomode.

Tutte le scuse, le illusioni, le bugie trovavano posto in buste diverse, anche se lo spazio maggiore lo occupava la verità; parole di ogni luogo e tempo, ognuna schiacciata contro altre di lingue diverse: a sentirle pronunciate tutte insieme quelle parole probabilmente il suono sarebbe stato assordante.
Tutti i “non ho tempo” stavano in un sacchetto poco resistente, di cartone marroncino con un unico manico, vicino a quello ricoperto di scritte dei “il problema non sei tu, sono io”; in uno lilla si affollavano tutti i sussurri dei baci dati senza amore, mentre in uno a righe i borbottii di quelli che rimandano sempre.
A volte una mano curiosa rovistava nell’anta, rimescolando l’ordine di tutto ciò che c’era al suo interno: come risultato i “non sono stato io” finivano appiccicati ai “non è il momento giusto” e ai “comincio lunedì”, i “ma è solo un amico” andavano a stare nello stesso sacchetto blu dei “stavolta è diverso” e delle chiacchiere riservate ai confessionali.

Non importa quanti sapessero dove andassero a finire le frasi scomode che uscivano dalle labbra, per quanto carnose ed attraenti, per quanto oneste od allenate; tanto nessuno ci teneva a riportarle nell’atmosfera. E quindi che stessero pure rinchiuse in quella confusione di plastica e cartone, come se la forza dell’attrito dell’una contro l’altra potesse bastare a farle dimenticare.

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Nebbia.

Ma se la nebbia non fosse così negativa?
Se fosse una delle poche certezze capaci di riportarti a casa?
Si può essere chiunque nella nebbia, si può essere se stessi.
Nella nebbia mescoli paure e baci.

E se la nebbia fosse la polvere dei pensieri nella nostra testa?
Per questo sarebbe pericolosa.
Per questo dopo un po’ è stanca del sole e della pioggia, dei nostri alti e bassi, ed esce per costringerci a stare fermi con gli occhi piantati verso il nostro obiettivo.
E’ più saggia di noi la nebbia.

La nebbia sei tu, sono io, sono i dossi nascosti, sono gli ostacoli che spariscono.

Segui la nebbia.

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Il mistero dello specchio rotto.

 

Ogni notte era la stessa storia. In realtà ogni singolo respiro era la stessa storia.

Farsi male con le proprie mani, ecco cos’era. Mi chiudevo dietro una maschera, sorridevo a non finire, oppure fumavo, fumavo sogni e buone intenzioni che si incenerivano ai miei piedi.

Dentro era tutto un frammento, uno specchio rotto, non lo sapeva nessuno, a malapena me ne rendevo conto io.  Beh, in realtà io ne ero perfettamente consapevole: sapevo contare sulle dita delle mani del mondo le mie bugie, le mie paure, il mio tempo sprecato, le mie relazioni a metà, quelle fantasma.

Ero in un enorme pantano, a volte lottando goffamente, senza far altro che immergermi ancora di più, soffocandomi con le mie stesse spallate; altre volte alzavo il mento, fieramente, ma senza mai riuscire davvero. Pazienza, ci stavo facendo l’abitudine ad essere così, una realtà incompleta, forse neanche realtà.

Finchè non ho scovato un errante come me, un vagabondo in una vita scomposta, ma bella. Una persona quasi del tutto differente ma che suonava una musica familiare, lo stesso colore sporcato con una sfumatura che non era la mia.

Apparentemente i lati che avevamo in comune si esaurivano in due respiri, o tre, in qualche risata sincera, ma sotto sentivo di più. Sentivo una vita, una vita che valeva la pena togliere da quel pantano -non era l’unica, la mia, ingabbiata nelle sabbie mobili.

Da lì sono cominciati i guai.

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Un mostro.

“Ciò che conta” dice Sorella Vigilante, “è che la gente ha bisogno di un mostro in cui credere.”
Un nemico vero e orribile. Un demone in contrasto con il quale definire la propria identità. Altrimenti siamo soltanto noi contro noi stessi.

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